Sara Perniola su LIBIA, “PAC”, 22 dicembre 2022

Festival Lucy e il Politically Connected: ErosAntEros porta in scena la Libia raccontata da Mannocchi/Costantini
Sara Perniola, “PAC”, 22 dicembre 2022
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La messinscena ideata dalla compagnia è profondamente innovativa e creativamente intensa: sul grande schermo posizionato al centro del palco scorrono le immagini fumettistiche del testo, rese animate da Majid Bita e Michele Febbraio, mentre Agata Tomšič e l’attore Younes El Bouzari rappresentano i temi della graphic novel con sbalorditiva intensità, con caratteri vocali che è come se venissero percepiti attraverso un tono muscolare.
Questa tensione, infatti, sale e scende lungo tutti i muscoli del corpo; vibra in onde progressive di empatia e rabbia, commozione e drammaticità, ascoltando i due performer che recitano dialoghi e flussi di coscienza. Simulano anche urla soffocate con i visi segnati da un’afflizione senza consolazione, reinterpretando la stessa grande attenzione rivolta alla resa dei volti e delle espressioni nelle tavole di Costantini, in una dinamica di alternanza e sovrapposizione con le musiche dell’impeccabile ed eclettico Bruno Dorella eseguite dal vivo.
Gli strumenti che riproducono gli spari della guerra, gli esperimenti musicali e la climax sonora che diventa sempre più acuta con l’intensificarsi dei momenti drammatici, ispessiscono il carattere tragico e catartico della pièce, a cui contribuisce anche la voce calda e densa di Tewa Hanen Shushan che ascoltiamo come sottofondo e nel fluire delle animazioni video.
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Il ritmo del lavoro è fluido e incisivo, dovuto al perfetto allinearsi della narrazione all’interno della narrazione. Le voci e i gesti degli attori sono in completa simbiosi e riproducono sul palco la descrizione di reali persone che sono all’interno e al centro di un determinato mondo, nel tempo come nello spazio, acquistando una corposità specifica. Ed è possibile registrare una così elevata celebrazione di questa concretezza nel notare come vengano sottolineati alcuni elementi narrativi, drammaturgici e scenografici, col fine di intensificare il carattere eminentemente drammatico dello spettacolo.
Frasi, infatti, come «Tu puzzi», «La Libia sembra un cibo andato a male», «Il vero bancomat della Libia sono diventati i migranti» sono sapientemente ripetuti, permettendo di entrare ancora di più nel vortice dell’azione, contribuendo alla definizione dei personaggi e della realtà rappresentata. La narrazione di tanti eventi drammatici in un breve intervallo di tempo accentua, poi, l’impressione tragica, così come il potenziamento dei suoni e dei lampi di luce che scoppiano nei momenti più significativi. Il palcoscenico è spoglio e scuro, e gli abiti dei performer anche: d’altronde nero è il conflitto che si racconta, nero il colore della morte senza giustizia.
Assistiamo, quindi, a una sorta di catarsi aristotelica che trova nella drammaturgia una sua applicazione pratica, poiché evoca tormentosa compassione, conducendoci a una commozione verso una terra che dovrebbe essere fraterna, con cui abbiamo sbagliato e continuiamo a sbagliare. Il teatro ci restituisce una Libia dagli smalti puri e velenosi, dall’aria inebriante e irrespirabile, con vecchi difetti e naturali ambizioni e universalità. Ci getta nel disturbante intrappolamento di quella realtà, che indigna, rispettandone tutta la complessità e la grandezza, la lontananza e la vicinanza.
Una Libia che è in mezzo a noi, che esce per prima dai propri confini e che rivendica la propria storia per desiderio e giustizia, per politica e senso morale. A noi, disperati del benessere, spetta distinguere in questo impasto gli aspetti sinceri di una faccenda così intricata, accrescerli e alimentarli con la fiducia nei confronti della memoria e con la pietà per le illusioni o gli ideali. La salvezza, per i libici e per le nostre coscienze, non ha altra via.